Due settimane fa mi interrogavo sul dolore che mi genera un determinato specchio. Quello della menzogna, l’omissione, qualcosa di insito in me sia biologicamente che karmicamente. Quella parte bugiarda che voglio lasciare morire, in quanto malata e ammalante, non risanabile. Già nel primo grande passo, in quella direzione, ho percepito un cambiamento. Enorme. Al punto di mal sopportarmi, al punto di ritrovarmi estremamente suscettibile ad ogni segno mi si presenti davanti. Ad ogni meccanismo che vado a creare nei rapporti con le persone. E non è il problema degli altri, casomai sono io ad essere sul banco degli imputati. Da un parte cerco di scansare la fretta nel vedere il risultato atteso o previsto, dall’altra il mettermi in discussione, creando un polverone incredibile che mi affolla i pensieri e lo stomaco. Ho appurato anche in settimana ciò che mi rende così. Le domande, prima esterne, poi interne, si susseguono su un estremo mettermi in dubbio di fronte ad ogni segno.

Il meccanismo è sempre lo stesso. Ed il rivelatore pure. Il fastidio. Quando qualcosa, qualcuno, una risposta, un atteggiamento, sia mio che altrui, mi provoca fastidio, anche minimo, sento stridere lo scarabeo di Hamityville, un fischio assordante, che cessa soltanto tramutandosi nella mia delusione, come il percepire che sto nuovamente sbagliando, cercando all’esterno le risposte che, invece interiori, non riesco a dare. Aspettarsi o pretendere. Dare e ricevere. Sono ciò che ho, avrò ciò che faccio. A scoppio ritardato, e di tanto, a volte. E forse è proprio questo che mi confonde. La ricerca della specularità assoluta, impossibile segno banale per ricercatori che non sono alle primissime armi. E l’esperienza recente me lo dice ben chiaro. Attraiamo a noi quello che ci serve, quasi mai un premio. Ma nemmeno una punizione, casomai il messaggio da leggere nella specularità. Troppo spesso dimentico che la mia immagine allo specchio mi corrisponde, sebbene muovendo il braccio destro, vedrò quel sosia muovere il sinistro, e diametralmente via… Quella sensazione di fastidio mi offende a sorpresa, come un bambino suscettibile al pianto, e questo pianto è lì che mi attanaglia, pronto, a lavarmi l’anima o a sancire la mia vergogna.

Il pianto di gioia è tanto raro quanto immenso. Il pianto della pienezza dipende dal quantitativo, e soprattutto dal qualitativo di liquido che fa traboccare quel vaso di Pandora. Ed ecco che a volte un evento esterno, che comunque vado inconsciamente cercando, mi scuote al punto di vergognarmi, e piangere, pentito della mia stupidità. Ho rivisto per l’ennesima volta l’altra sera Constantine, ed anche stavolta l’Equilibrio mi ha suggerito di riportare l’attenzione. La presenza. Quella che probabilmente sto perdendo centimetro su centimetro, tipico di quando ci si ritrova improvvisamente sceso al fondo del pozzo. Una nuova crisi evolutiva? Speriamo. Altro messaggio nel film è riportato dall’epica frase di John: “non credi nel Diavolo? Il Diavolo crede in te”. Manipolo per lavoro e per studio personale oggetti, simboli e letture di difficile comprensione se utilizzate nel modo giusto, ma di indubbio aspetto esoterico ed occulto. Anche qui scansare l’ambizione dalla ricerca non mi è facile. Cerco di lavorare ed esercitare il mio scopo ad un livello superiore, dove le rilevazioni astronomiche o cosmiche non hanno influenza sull’ umano, casomai il contrario, il livello del corpo atmico, ancora troppo basso rispetto alla mia prerogativa, alla mia scelta, alla mia ambizione, ed ancora non so scegliere quale delle tre azioni sia più vicina a ciò che mi spinge. Ancora una volta mi chiedo se do da mangiare al lupo giusto. Ma nella dualità nessuno dei due lo è. Quindi sono nel corpo mentale. Nel ritorno al padre potrei anche essere vicino alla fine del mio tempo, ma anche questa è storia vecchia, nessuno lo sa, nessuno può prevederlo, fortunatamente. Sicuramente mi sto mettendo più in dubbio che in discussione, e questo non va bene, o perlomeno non andrebbe. Ora sono qui, e devo essere contento di esserci, anche almeno in confronto a dove ero alcuni mesi fa, convinto di cavalcare anziché annaspare. Ho avuto in dono qualcosa di grande, che mi corrisponde specularmente nella mia imperfezione simmetrica. Tanto bello di qua, molto meno di là. Molto bravo qui, mediocre lì.
Sempre alla ricerca della via di mezzo, che non è minimamente simile all’unità, frutto di tre energie, e non la chimera, nell’impossibile centro della dualità.

Ho una nuova spada di Damocle che pende sopra di me annunciando la linea di realtà che potrebbe avvenire continuando in questo modo. Il modo annunciato da mia nonna nella sua sconvolgente apparizione e seguente rivelazione. Non sto, non stiamo, facendo le cose con amore, non ce lo stiamo mettendo. E vale per tutto, non può essere selettivo. Inutile amare o fare del bene in maniera selettiva, in quanto l’ombra del giudizio ammala la capacità di nutrire, di connettersi, di crescere. Ho a che fare nuovamente con schemi, morti, vampiri e demoni. Altro simbolo che suona forte come una campana nel film è la presenza ribadita del “sacrificio”, atto superiore alla redenzione, al pentimento, quello che consente l’accoglienza nel Regno dei Cieli. Sacrificherò ancora me per il mio bene. Sacrificherò quel demone ribaltandone la visione. Uno in particolare mi si presenta spesso nelle sincronie e nelle coincidenze. Il Bafometto. L’etimologia del nome appare molto controversa: una deformazione latinizzata di Mahomet, una versione medievale europea deformata di Maometto, oppure una derivazione dal sostantivo in arabo: ابو فهمة ‎, Abu fihama, con il significato di “padre dell’ignoto”, e associato con il sufismo. Eliphas Lévi propose che il termine invece fosse composto da una serie di abbreviazioni lette al contrario: “Tem. ohp. ab”. che prendono origine dal latino Templi omnium hominum pacis abhas, con il significato di “padre della pace universale tra gli uomini”, oppure tem. o. h. p. ab. per templi omnium hominum pacis abbas, quindi abate del tempio della pace dell’umanità. Ancora una volta il ribaltamento è lo specchio della dualità.
Salirò al di sopra di queste specularità, solo dopo aver ribaltato la visione, riuscirò ad annientare le polarità e sentirò arrivare la terza forma energetica, per quel triangolo sulla portale della connessione universale, che mi consentirà di morire, in pace, se a parlare sia ora quella parte. Quella parte malata, forse di una malattia diversa dalla precedente, ora che anche se in ritardo sono intento alla cura di questo grande albero, alla ricerca di ogni parte malata, quale da curare, quale da strappare, quale da estirpare, se affetta, se marcia, se secca.

Prima di parlare domandati se ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno, se è utile, ed infine se vale la pena turbare il silenzio per ciò che vuoi dire.
Gautama Buddha

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