Proprio ieri sera, un velo di cupa tristezza mi invadeva. Si intensificava e diventava profonda, inaspettatamente all’ascolto di una canzone. Già di per sé la tristezza non è necessariamente negativa, anzi è di sprono a volte, sempre però se mantenuta lontana dalla sua cronicità. Poi rifletto brevemente, provo a ricercare quel silenzio in cui a volte si apre quel canale, e arriva come una conferma dolorosa. Sto lasciando, non perdendo, qualcosa, lascio un vecchio per un nuovo. Cambio qualcosa nella partita, forse tolgo un difensore per un attaccante. Almeno lo spero.
Era proprio ciò che studiavo recentemente e che al solo annuncio mi faceva tremare, lasciare una parte malata di me è uno strappo doloroso ma necessario. Ti ritrovi a dover mollare una vecchia parte di te, oppure ti rendi conto che ti si sta proprio staccando, quello che prima era in te e che sebbene non riconosci più comunque è un dividersi per accogliere il nuovo, e può corrispondere ad una crisi, un dolore, una morte.

Questi avvicendamenti mi fanno venire in mente quelle scene di addii o di arrivederci dalla nave.
Vedi ciò che era, come se fosse ancora esistente, ed in effetti ancora lo è, ma lo lasci, perché te ne stai inevitabilmente allontanando, e lo vedi in lontananza diventare sempre più piccolo e confuso, prima di staccartene del tutto. E questo avvicendamento che vivo, corrisponde probabilmente ad una morte. La morte di una parte di me, spero malata, come quel ramo da tagliare per favorire nuova crescita botanica, ma che come ogni potatura arreca dolore.
E quando sei nel dolore, vibri dolore, quindi noti e ti colpiscono i dettagli similari.
Approfondire il messaggio che ti portano le persone è il mio lavoro di questo periodo. E la riflessione sulla morte è all’ordine del giorno. Di solito una o due coincidenze destano l’attenzione, tre diventano subito un indizio probatorio.
Conoscere persone che hanno avuto a che fare direttamente con la morte rappresenta la morte stessa. Espressa oniricamente e simbolicamente è simbolo di rinnovamento, nel ciclo naturale della vita. Biologicamente è solamente il termine che il fisico raggiunge quando l’anima ha completato in quell’incarnazione i compiti, sia per il corretto espletamento, che per l’impossibilità di farlo. Difatti quando è ora, è ora.

Aprire gli occhi e rimanere presenti, il più possibile mediando tra il venale ed il sentire. Applicare la consapevolezza alla responsabilità. Di conseguenza quello che ti capita, o meglio scegli, crei. Ed è perfetto, semplicemente ed inevitabilmente necessario. I personaggi del mio film sono scritturati da me per motivi che si manifestano solo se mantengo vigili presenza, consapevolezza e responsabilità. Capisci quando quella scena è terminata o sta durando troppo a lungo, quando la vena e la reazione al lamentarsi o al soffrire qualcosa si fa viva.
Inizialmente fai delle domande, a te stesso, alcune delle quali non hanno risposta né in te né all’esterno. Ma di certo non averne subito, non fa sì che la domanda sia immediatamente inutile o sbagliata. Già farsi delle domande, oggi come oggi, è un valore. Poi avere le risposte è tutto un’altro paio di maniche. Morire è cambiare, cioè trasformazione, l’unica cosa certa nella vita. L’opportunità, ancora una volta, si distingue ed emerge.

Poi casualmente approfondisco perché questa canzone che casualmente e solitamente ascolto, nell’occasione di ieri mi colpisca nelle principali ferite dell’anima. Benché queste sensazioni non mi rappresentino in ciò che è la mia vera essenza, di certo in quel momento mi colpiscono. Una coincidenza, un rimando, a ciò che molto più profondamente sto ricercando.

Condividevo quindi il breve testo che segue con la canzone sul social per antonomasia:
Anche oggi come nel 63 (anno della sua composizione) siamo in una guerra. Una canzone poetica che parla dei diritti civili, e degli orrori di quello che stava succedendo, proprio come oggi tra discriminazione, paura e ignoranza.
Anche oggi nelle piazze in tutta italia ci sono molte decine di migliaia di persone che pongono una serie di domande, le cui risposte, volano nel vento.

Le mie risposte sono quindi nel vento, e provo a prenderle come fossero farfalle da rincorrere in un prato primaverile. Riuscirei con un retino, correndo il rischio di danneggiarle, o peggio, piuttosto che aspettare che mi si posino sulla spalla o sulle dita, oppure apprezzarne la meraviglia imparando ad osservarle.

Osservo senza paura che morte è rinnovamento e trasformazione. La capacità sta nel cogliere due piccioni con una fava, cioè cogliere sia l’opportunità che il dono. Otteniamo il dono quando lasciamo andare quella sensazione negativa, quando il rancore o il dolore verso il fato o verso chi ci ha lasciato si trasforma. La trasformazione nella morte è in nuova vita. Sempre e comunque. Si è testimoni proporzionalmente alla capacità di vedere, alla capacità di affrontare, tutte dirette conseguenze di ciò che la nostra anima sceglie per l’evoluzione, per crescere, per cimentarsi, allenarsi a diventare interiormente più forti, maturi, passare al livello superiore. Proprio come nell’esempio della farfalla nel suo bozzolo. E questo è un’esempio che ha un valore biunivoco, da ogni lato dell’osservazione.

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