Osservare i tratti somatici, le posture, i comportamenti sociali e zonali, nonché antropologici delle persone è una delle mie passioni da sempre spontanee e innate… Specie dopo una fiera come quella appena trascorsa, in cui un bacino di persone molto diverse dal solito mi siano passate davanti, anche se corrispondenti ad un intento comune (visitare Pisa), per cui diverse razze, lingue e culture mi presentano determinate caratteristiche, che allargano il ventaglio di conoscenze che anche istintivamente apprendo.
L’intelligienza artificiale mi suggerisce questa definizione ad un riguardo più astratto: le tipologie antropologiche sono categorie utilizzate dagli antropologi per classificare e analizzare le caratteristiche fisiche, culturali e sociali degli esseri umani. Queste tipologie possono includere aspetti biologici, come il fenotipo o il patrimonio genetico, ma anche elementi culturali, linguistici e comportamentali. L’obiettivo è comprendere la diversità umana attraverso modelli che descrivano somiglianze e differenze tra gruppi o popolazioni.
In passato, le tipologie antropologiche erano spesso basate su criteri rigidi e talvolta controversi, come le “razze”, un concetto oggi ampiamente superato e criticato per il suo uso improprio e discriminatorio. Oggi, l’antropologia moderna si concentra su approcci più dinamici e interdisciplinari, che tengono conto della complessità delle interazioni tra genetica, ambiente e cultura nel plasmare l’identità umana.

Per continuare individualmente e senza aiuti o scorciatoie, apprezzo e ammetto che una delle fortune del il mio lavoro è avere la possibiltà di osservare queste tipologie, anche in maniera sociologica, umanistica, olistica, e soprattutto per vedere me in loro, il vecchio, il nuovo, l’antico, il probabile, il mancato, e chi più ne ha più ne metta, ma tutte caratteristiche in relazione a me. E specialmente a Pisa, in centro, ho modo di osservare dettagli che raccontano della vita delle persone, delle loro scelte, delle loro identità originali e costruite, dello status che vorrebbero mostrare, della loro “abile risposta” di fronte agli eventi che la vita gli ha regalato per evolvere… E poi chiaramente, sono dettagli visibili a me per ciò che loro specchiano nella mia visione. Quindi qualcosa di limitato alla mia conoscenza, sia esperienziale, culturale, che vitale, che evolutiva, per cui posso percepirne solo una parte. Eppure quella parte è tanta roba, ed è davvero utile. Nelle tipologie antropologiche e sociali vi sono dei sentieri segnati, o quasi, per cui vi è una prospettiva identificata con una linea precisa che punta ad una personalità, una specifica identità, una maschera, uno schema, un’identificazione, un gruppo, un ruolo, un compito preciso. La cosa più bella è che mi rivedo, in proiezioni che sfociano in ogni direzione, dalla più plausibile alla più remota. A volte viaggio nella vita di quelle persone, di qualunque età, ma spesso più giovani e inquadrate, percependo in un remoto e quantistico futuro cosa incontreranno e quali strade saranno per loro le uniche, e spesso mi chiedo quale incredibile scossa avranno se e quando si sveglieranno ad una nuova vita, quella che relegherà loro quelle esperienze tipiche di chi deve cambiare, per forza, senza morire. Nei soggetti più adulti, anche molto più di me, riconosco a volte la sofferenza di una situazione in cui senza schema non puoi avere stimoli. Stimoli diversi da quelli per i quali non ci stai dentro, e intravedo pressione arteriosa, stomaco, cuore, come nel film “il pianeta verde”, anche se nemmeno mi sento degno di riuscire a fare una considerazione così tipica. Una considerazione del genere. Già. Perché chi sono io, per avere uno scranno o un pulpito tale, una visuale osservativa privilegiata, con i convenevoli del caso, quelli per cui vedi da lontano e riconosci l’intera scena, dai suoi primordi agli ipotetici epiloghi, per avere da esprimere una qualsivoglia opinione? E soprattutto quando ci sono in mezzo affetti, parti di cuore, parenti stretti, la capacità di “guardare e passare” diventa davvero ardua. Queste situazioni a volte le percepisco anche inversamente. Età mature che infantilmente scoprono, età acerbe che hanno già capito tutto. Ma sempre viaggiando nello scoprire le loro esperienze, e cosa li ha resi così che sia identità, cuore, schema…

Poi mi chiedo, può una bambina di 13 anni, già appartenente alla tipologia antropologica già ereditata di individuo a metà tra lo “scappato di casa” e il “nullafacente che non ha niente da perdere”, rientrare e ritornare in una tipologia completamente opposta? Un pony che crescendo si ritrovi asino diventare un cavallo? E senza attribuzioni intellettive, mi chiedo se mia nipote può redimersi o vivere una condizione che meriterebbe senza affrontare il karma apparentemente irreversibile che le si è proposto per sua animica scelta (da verificare) ma anche per negligenza di tutti noi che la dovevamo sorvegliare, oltrepassando la pigrizia, l’ignavia, e il giudizio indolente che contraddistingue la mia caratteristica familiare, giudicare senza intervenire, un peccato mortale, specie se a farne le spese sono giovani vite di cui si ha responsabilità. L’ho punita picchiandola per i miei schemi legati all’onestà e alla rettitudine e per i quali sono stato pronto a “sfogarmi” come giustamente lei afferma, ma infatti sulla base dei miei schemi educativi ha ragione. Alzare le mani non serve a niente. Infatti ci sto ancora male, sebbene oggi la situazione sia ancora peggiorata in mia assenza e non ho intenzione di identificare la mancanza di responsabilità di chi oltre a me doveva, poteva, o sceglieva, nel non sorvegliarla. Non ho una soluzione ne una risposta a riguardo, proprio perché questa cosa mi deve fare osservare una parte di me, una paura che con intenzione di amore serve proprio a proteggersi da qualcosa di ignoto e temuto, e l’intenzione di amore è utile per conoscere chi siamo, da dove veniamo, verso cosa andremmo, nell’illusione di potere arrivare, là dove nemmeno sappiamo di poter arrivare.

Infatti a volte osservo le persone e indipendentemente dalla ipotetica tipologia antropologica, rivedo al passato, presente e futuro, quella storia di loro che è anche la mia. Negli stessi tempi. A volte percepisco una sofferenza nascosta da una maschera, un’identificazione così come uno schema che tiene in vita e propone una via artificiale che nella medesima modalità consente gli stimoli che servono. Servono a tempo. Ma d’altronde tutto è a tempo. E chi sono io per giudicare. Perché in fondo mi chiedo se davvero osservo o giudico, da sempre, e il confine sebbene si sia assottigliato rimane comunque visibile.

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