Ha ricominciato a pulsare ininterrottamente lo spasmo muscolare che ho sotto alla spalla, ora a destra, quest’estate e per tutto l’autunno alternandosi anche alla mancina. Impotenza, incapacità di fare o di essere propositivo in qualcosa che serve, un aiuto o una soluzione da trovare. Da anni il fenomeno di Raynaud mi aspetta al primo calo di temperature ottobrine per lasciarmi verso fine maggio.
Wikipedia lo descrive come vasospasmo eccessivo per uno stimolo fisiologico di vasocostrizione per stimoli simpatici (emozione, spavento) o passaggio da ambienti caldi a freddi, caratterizzato da insensibilità alle mani seguita da cianosi, pallore, dolore, formicolio, bruciore. Quindi uno “spasmo” nuovo che nel corso del 2024 si è aggiunto ad un’altra dinamica già presente e ricorrente. In entrambi i casi vi è sforzo senza il risultato sperato, senza soluzione, e l’impotenza generata dall’incapacità di essere di aiuto agli altri.
Ieri sono andato con mia nipote a trovare mia sorella che per qualche mese ha deciso di prendersi finalmente cura di se stessa e soprattutto di ritornare ad esserlo. C’è stato un momento in cui, in quell’abbraccio finale di tre persone ho sentito la famiglia, al di là della fortissima emozione che in quel momento ho percepito nel cuore. Ho sentito la famiglia che ho deciso di non aver creato, ancor di più di quella o quelle, ormai estinte o anziane, da cui sono stato creato. Ho dopo tanto tempo rivisto in mia sorella un lampo di quella determinazione senza paura che mi mostrava già, più piccola di me di sei anni abbondanti, quando eravamo bambini. Un episodio ricorderò per sempre. Io trapiantato in un’altra famiglia rispetto a quella materna dei nonni in cui sono nato e cresciuto fino ai sei anni, ero molto nervoso e ribelle, sebbene per nulla coraggioso e accumulavo rabbia e soffrivo dentro nella mia introversia. La figura paterna per me era sempre stato mio nonno, anche se i pantaloni li portava mia nonna. Con colui che ora mi faceva da padre avevo una controversia semplice ma profonda, semplicemente eravamo talmente diversi che non sapevamo bene prenderci. Non ci eravamo scelti ne voluti, nel senso più pulito del termine, chiaramente. Tutto il contrario di oggi, dove la reciprocità della stima è un qualcosa che ci scambiamo solo con lo sguardo. Inoltre ero molto geloso e deluso da mia mamma, che a mio poco sindacabile giudizio rispetto a qualche tempo prima, sentivo meno vicino di prima, quasi pensassi che mi trascurava per lui e mia sorella. Non mi trovavo e mi ribellavo, poi venivo punito. Ero comunque un bambino che covava rabbia e impotenza senza sapere gestirle, quindi ogni tanto passavo il limite oltre la mia stessa immaginazione. Quella volta l’ho talmente sparata grossa che ho parlato con parole più grandi di me, erano probabilmente una sfida per una gara che con mia madre non avrei mai immaginato di dover concorrere. Ero davvero molto nervoso e irrequieto, mi sentivo limitato e costretto, litigavo continuamente con lei, evitando le sue ciabatte volanti lanciate incontro ad offese da me ricevute di ogni tipo. Il padre adottivo a mio dire non aveva il diritto di punirmi in quanto tale. Questa frase ferì mia madre che gliela riferì al suo ritorno, ricordo d’estate tornava a casa dal lavoro che era già parecchio buio, a volte anche alle 10 di sera, e conosco quel lavoro, a quell’ora non vorresti altro che mangiare e dormire tranquillamente. Quindi per evitare di reagire peggio se ne uscì sorprendendo tutti dicendo: Ah sì? Allora fuori! Fuori di casa! Mentre mi incamminavo fuori senza una meta sentivo più il fastidio dell’ignavia, il silenzio e l’impotenza di mia madre piuttosto che l’inevitabile sfregio dell’offesa di quel paritario contrappasso ricevuto e ben capito, o del non sapere dove andare e cosa fare. Ero piccolo, forse avevo nove anni, era buio, sarei potuto andare da mia nonna ma non avrei mai trovato la strada da solo. E quindi sono arrivato dalla parte opposta di quella grande piazza che avevamo davanti a quella piccolissima casa, e mi sono seduto per terra, o forse su un grande sasso o su ciò che rimane di un albero tagliato, nella penombra di quel campetto da calcio che vi era e dove andavo a giocare abitualmente. Estate, finestre aperte, mille probabili occhi e orecchie testimoni, ma la vergogna non mi toccava quanto cercare già in quei pochi istanti di entrare nell’ordine delle idee di un bambino di quell’età, di dove andare e come cavarmela. Istanti, secondi, lunghi come secoli.
Eppure con mia grande sorpresa dopo un attimo si sente lei, mia sorella Giorgia, strillare come una pazza e correre fuori urlando No! Stronzi! Allora vado anche io! Sto ancora adesso piangendo. Quei due bambini seduti vicini fuori di casa. Ed io che cercavo di consolare il suo pianto. Lei poteva avere al massimo tre anni. E in quei momenti la mia vergogna era ancora più ampia nel constatare con che coraggio ha preso le mie difese. Dopo mia nonna è stata una delle poche persone che mi hanno difeso. Mi vergognavo e non riuscivo a piangere perché avevo di fronte a me una bambina che mi ha mostrato ciò che io probabilmente non avrei avuto il coraggio di fare. Chiaramente a quel punto la vergogna, vista la situazione e l’evidenza di dominio dei tutto il quartiere, deve aver colpito anche quegli altri due, visto che mia madre dopo un nonnulla è venuta a riprenderci. Ancora rido, anche se col viso rigato dal pianto.
Poi siamo cresciuti ed i rispettivi karma hanno segnato diverse dinamiche per cui mi sono sempre sentito in colpa per essere stato molto più fortunato di lei. Mi manca quella bambina, mi manca mia sorella che si gettava a capofitto nella colpa e nel fuoco. Che non aveva paura delle botte o delle punizioni. Che aspettava si girassero in un’altra direzione a tavola, per rubare e bere il vino dal bicchiere di suo babbo, solo per farmi ridere. Mi manca quella bambina che avrebbe fatto tutto per me, qualunque cosa, ed io stronzo che a volte non la sopportavo. Ci sto male ora come allora, sapevo che lei non aveva nessuna colpa di ciò che mi era successo prima. Mi manca quella bambina che volevo uccidere o avrei preferito non fosse mai nata, solo per l’egoismo stupido, incosciente e infantile di non essere più figlio unico. Mi manca quella bambina che voleva sempre quello che avevo o mangiavo io, mi manca anche l’atto nervoso del doverglielo cedere. Mi manca quella bambina che probabilmente viveva anche lei una situazione difficile e faceva la pipi a letto e al mattino mia madre arrivava già urlando, provavo io stesso dolore per quel risveglio così brusco e ignorante del fatto che non lo faceva di proposito. Mi manca quella bambina che rivedo negli occhi e nei profili delle sue due meravigliose figlie. Mi manca quel coraggio. Mi manca quella famiglia che non c’è più e quel che resta ho paura possa finire da un momento all’altro.
Un articolo molto diverso da ciò che scrivo egoisticamente di solito. Chissà forse dovrò cambiare argomenti, rispetto a quello che ho scritto finora, che in questo momento sembrano temi di autocelebrazione del mio essere, vista la giornata di ieri con la sua esperienza così forte e dolorosa, e soprattutto per come si andava concludendo prima di cena, con la visita di un mio caro e vecchissimo amico e per come lui mi ha definito ieri sera, il giusto epilogo per una giornata così pesante e toccante, un falso e viscido guru del cazzo. Non lo ringrazierò personalmente per questo, detesta il mio essere così diverso da lui nel medesimo cammino evolutivo, sebbene con modalità e impegni differenti, ma avrò tanto da lavorarci sopra a questa mia definizione che accolgo e accetto come un grande segno.



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