Mi ritrovo di nuovo qui in capo ad un mese. Un mese esatto. Ancora bianco e tutto intorno, ancora tristezza, malattia e tempo rallentato. Mi sto sforzando di sintonizzarmi su frequenze di gioia e di stupore per scoprire lo scorrere più veloce di questo variabile tempo. Ieri sera un calcinaccio di intonaco decide di conficcarsi nel mio occhio sinistro, lontano dall’iride ma nemmeno tanto, riflessologicamente in zona gonadi. Un attacco alla mia visione sensibile che però non pregiudica la sua capacità. Ancora una volta sono fortunato. Poi scoprirò l’indomani che una candela lasciata come sempre a bruciare in un piatto di terracotta, probabilmente in quel preciso momento, aveva fatto scoppiare in due il piatto. Quest’anno davvero non ci si annoia. Questo luogo mi mostra ancora una volta ciò che non avevo forse notato la scorsa. O forse nuove dinamiche, di persone come me che non vorrebbero essere qui, e che probabilmente stanno uniformemente riflettendo su tutte le volte in cui non hanno apprezzato, celebrato, ringraziato, uno stato di salute differente da questo, in cui fuori dalla finestra si svolge la vita mentre invece qui dentro è come se il tempo si fermasse. Da bambino ci sono stato per un mese. Ad otto anni, un mese di ospedale è forse equivalente ad un anno. Ed i ricordi di quei giorni sono pietre miliari della mia infanzia, della mia crescita. Probabilmente dai 7 agli undici anni sono cresciuto per l’equivalenza di un decennio. Quel reumatismo articolare acuto che due giorni prima si manifestava con un piccolo dolore ad una gamba nel salire le scale, mentre il giorno dopo lamentavo lo stesso dolore all’altra gamba, ha fatto ridere tutti i miei compagni di classe. Gli stessi che, tutti quanti, dopo che il terzo giorno finivo su un’ambulanza con le gambe paralizzate dal dolore, mi scrivevano letterine di scuse, inutili alla mia sofferenza, forse per la prima volta davvero percepivo la sofferenza degli altri, il senso di colpa nell’azione di gruppo che porta al rimorso. Ad otto anni vivevo già l’esempio dell’identificazione.  Guardavo fuori da quelle finestre ogni giorno, e immaginavo la bellezza di un pallone che rimbalza, il rumore della bicicletta quando la quantità di moto ti consente di accarezzare l’aria senza pedalare, il mare, la presenza, la libertà. Se prima ambivo ad avere un televisore, già potevo capire che serviva solo ad “impegnare” il tempo, impegnare, anziché goderne. E proprio in quell’ospedale nell’odierna attesa che mi si dicesse che potevo essere dimesso scoprivo davvero un mondo che al di fuori era celato, nascosto e ignorato. Scoprivo come poteva esistere l’afta, quali e quante malattie o incidenti potevano verificarsi ogni giorno e quanti altri bambini potevano soffrirne. Eppure io rimanevo sempre lì e ne vedevo diversi arrivare, e poi andare. Tutti tranne Michael, credo si chiamasse, ricordo ancora lo tenevano in una stanza da solo, probabilmente più buia, gravemente handicappato, immobile e con sguardo assente. Oggi probabilmente scoprirei la sua anima lontana dalla sofferenza che io immaginavo in quel corpo che viveva vegetando un tempo per me lunghissimo ma per lui un eterno istante, karmico, di un destino che viene da un parallelo o da un passato. Poi un giorno un medico che non avevo mai visto nelle “ronde” settimanali, ha sancito il mio ritorno a casa, rassicurandomi nel poter ritornare a fare tutte le mie attività, e raccomandandosi nell’utilizzo della bicicletta di “non imitare Moser”, forse un imprinting che mi è rimasto nel riuscire a far divertire l’altro in ogni tipo di conversazione.

Iniziava e finiva così per me una delle più intense e tante esperienze di reclusione. Quelle per cui, secondo l’originale significato, una “cella” serviva a riflettere su ciò che avevo fatto, così come per la parola “isolamento “, e quel tempo che doveva fermarsi non era una punizione ma un opportunità. La stessa che ho avuto circa un anno dopo, quando finivo in collegio dalle suore. Un anno, quasi, questa volta per davvero. Lontano dal mio mare, dagli svaghi di una vita che era cambiata molto per me, portato da una casa ad un’altra, da un quartiere ad un altro, dove lottavo per integrarmi nonostante prima non avessi avuto mai bisogno. Lontano ed isolato, appunto, da mia sorella piccola di tre anni, dai miei nonni che mi concedevano una finestra di libertà alleggerita da un’età più matura, dalla mia mamma che mi aveva voltato le spalle, forse perché ero stato “cattivo”, forse perché meritavo di vivere un’esperienza del genere, cosa di cui sono grato oggi, Ma non ero cosciente di tutto ciò, anche se sicuramente quando sono uscito da quel collegio vedere mia mamma incinta mi ha fatto soffrire. Eppure dopo essere scoppiato in lacrime chiedendo quello che non avrei avuto il coraggio di chiedere sono riuscito a fruire della fine di quell’esperienza in modo più agevole. Non ce la facevo più ed ho chiesto in lacrime di poter tornare a casa. Ricordo ancora benissimo mia mamma e mia nonna in quel piccolo studio dove il collegio consentiva i colloqui con gli esterni chiedermi, chiedendomelo per favore, se potevo resistere fino alla fine di quell’anno scolastico per poi ritornare a casa. Quella quarta elementare dove una ricreazione di circa un’ora quasi non bastava a calmare l’impeto di tutti quei bambini, me compreso, che sfogavano ogni energia repressa in corse, lotte, figurine, ed i primissimi videogiochi, che al tempo si chiamavano, guarda un po’, scacciapensieri. L’evasione scolastica non era la sola, al pomeriggio mi toccava sempre il rosario, e per evitare la ripetitività noiosa di quella cantilena cerimoniosa delle suore, avevo escogitato di andare a servire messa dal prete, ogni pomeriggio, il quale mi dava sempre 500 lire. Avevo accumulato del denaro, che non avevo nemmeno la possibilità di spendere. Però uscivo da quel collegio, e lo guardavo allontanandomi felice verso la chiesa, probabilmente un centinaio di metri, a far compagnia al parroco, quell’unico esempio maschile che al tempo rincorrevo senza sapere, già carente di padre biologico. Ma questo è un altro capitolo. Purtroppo l’ignoranza e la limitatezza di queste povere suore avevano fortemente influito sul mio ritrovarmi ancor più diverso da tutti di quanto già mi sentissi, per cui anche il sonnambulismo aveva fatto la sua comparsa per un’anima che scuote quel corpo così lontano dal suo cammino. Ma dopo la mia richiesta di aiuto, le cose sono cambiate. E’ stato uno dei pochi e rari momenti di ribellione. Che a me costavano davvero tanto, avendo eredità un’ignavia che mi frenava dal rispondere, dal farmi intendere, dal reagire.
Da lì alla fine dell’anno scolastico, probabilmente un paio di mesi o poco meno, tutto è scivolato con molta più serenità, fino al mio ritorno a casa. Dove anche lì sarei andato incontro ad un’ennesima prigionia, rinchiuso ogni pomeriggio, nell’attesa di evadere, con il calcio, o settimanalmente dai nonni, fino a che l’età, la bicicletta, il motorino, mi consentissero di allontanarmi da quel luogo che per me poteva rappresentare o aveva in più occasioni rappresentato reclusione.
In entrambe queste due macrosituazioni, l’ospedale ed il collegio, sono riuscito a trovare attività ed intenti che hanno fatto “scivolare” il tempo in esperienze anche indicative e appaganti, provando anche dispiacere nel lasciare quei luoghi.

Ma ritorno col pensiero, come diceva Battisti, e ritornando a dove sono, mi ritrovo ancora in attesa al pronto soccorso oculistico, ma scrivendo mi è volato quel tempo infinito di attesa. Poi viene in maniera rocambolesca il mio turno. E tutto si sbriga. E come nelle favole appare questa Fata Turchina. Questa donna molto bella e molto gentile che senza farmi nemmeno a rendere conto mi toglie questo probabile spino di plastica infilato nell’occhio. Come nelle favole.

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