Lasciare spazio lasciando andare equivale a svuotarsi. E la cosa sta avvenendo in maniera prepotente. Il senso di vuoto ha pregi di silenzio, di stati di presenza, sebbene brevissimi, di calma, alternati ad un nuovo me. Sempre da riprogrammare, s’intende, ma nuovo e sorprendente. Una persona che non vuole perdite di tempo, meno falsa pazienza, più durezza, ma per giusta causa. Ed anche qui, il giudizio si spreca…. In questa settimana, anzi in circa 10 giorni ho fatto “il giro” diverse volte, da uno stato all’altro, avvelenandomi come un cane che portato al suo stremo ringhia e rimane guasto. Difatti dopo un confronto acceso del quale fino a poco tempo fa avrei indifferentemente ignorato, ma subìto, ho atteso il momento opportuno, che covavo a lungo sapendo di non poter intervenire prima, ed ho sbranato come una furia, come una fiera infernale, e sono rimasto acceso e guasto per un po’ di tempo. Prima di capire che una determinata frequenza mi aveva mangiato fino ad identificarmi. Ennesimo insegnamento. I birilli che avevo intorno sono caduti, traballanti o meno, anche quelli di una corsia da bowling non mia, spazzati senza ripensamento dalla mia palla, inesorabile e implacabile. Ma è solo un inizio, un principio, che però mi mostra una strada. Quel senso di vuoto mi porta a farne altro. È curioso ma è così. La donna che mi fece le carte tre settimane fa ci prese, anticipandomi la fine delle ostilità, o perlomeno la strada per, in cui avrei mollato anche le situazioni in cui ero costretto da una promessa o da un ricambiare. Le situazioni che “credo” mi servano o credo di volere, mi annoiano in breve, e mi ritrovo quasi a non sapere bene cosa voglio, cosa devo fare, senonché mi senta libero, liberato, alleggerito, ma vuoto.
Ancora mi ronza per la testa e mi sovviene quell’agnello di Dio, quello che toglie i peccati del mondo, quello che viene messo sull’altare dopo aver sacrificato il figlio, e poi ripreso, un po’ come nel buddismo il portare il figlio al tempio, sapendo di avere la possibilità di dovercelo lasciare. Click. Cambia la tua vita con un click. Un click di telecomando che da “avanti veloce”, anziché indietro, non viene usato per lo slowmotion, un rallentare, un mettere in pausa per godere di quel paesaggio. Ho sacrificato il vecchio me? Ancora non lo so, anche se di sicuro sto vedendo al rallentatore tutti gli errori commessi. E di fronte ho la visuale della strada libera che ho l’opportunità di imboccare. Sto perdendo tutto, senza perdere nulla. Sto lasciando andare tutto, senza apparentemente aver lasciato nulla. E’ tutto in me, più di prima, più saldo ed evidente di prima. In questi giorni ho rivisto e riletto ciò che ero e ciò che avevo, senza avergli prestato la giusta attenzione, o meglio intenzione. Sentirsi uno stronzo è una pura formalità, come nell’omonimo film, chiedete a Depardieu per credere. Vedo ancora il bello di fronte, notando l’orrore laterale, come un abbaglio stereotipato di cui ero/sono ancora vittima. Sarei spinto verso alcune cose o situazioni, proprio per abitudine o schema, che però oggi sono ancora più evidenti nel loro postumo ripensamento.
“Uscire da questa situazione o da questa emozione non sarà facile”. Questo è quello che avrei detto fino a poco tempo fa. Io non devo uscire da nulla. Lo devo attraversare o lasciare che mi oltrepassi, vivendolo. Ripeto per l’ennesima volta: godo di una fortuna non indifferente, se anche non devo propriamente ricambiare o entrare nel depotenziamento del senso di colpa, o inadeguatezza, mancanza di merito, e approfittare onestamente, soltanto dell’opportunità che mi si pone, devo ragionare e sentire (insieme, sì) sul da farsi inteso come scelta. Una scelta che è simile alla felicità, entrare in un flusso attinente alla mia vibrazione, o viceversa vibrare verso un determinato flusso, proprio come il denaro, ed il suo significato.
E dove sta l’intermezzo? Forse proprio in questa meravigliosa pausa che mi sono preso da tutti gli elementi materiali che solitamente mi identificano, mi affliggono, mi nutrono, mi depotenziano. E la cosa per quanto strana sembri, è comunque una novità che determina una fase, provvisoria o definitiva, poco importa. L’intermezzo tra ciò che ero e ciò che potrò essere, dal momento che nessuno può garantire il domani. Questo intermedio è gradevole, mi suona nuovo e non mi spaventa, sono solo molto stanco, ma ancora motivato a fare meglio.
Nel frattempo, qualcun altro non c’è più materialmente, e come mia nonna, è lì che se la ride guardandomi.